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Dall’email all’IA: come è cambiato il modo di connettersi al mondo

28 aprile 2023

Dall’email all’IA: come è cambiato il modo di connettersi al mondo

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C’è stato un tempo in cui aspettavamo giorni una lettera, e un altro in cui bastava un clic per parlare con qualcuno dall’altra parte del pianeta. La storia della comunicazione moderna è un viaggio che inizia con cavi e computer grandi come stanze, e oggi sfiora la fantascienza, con macchine che scrivono, traducono e persino imitano la voce umana. Ecco come siamo arrivati qui.

Gli inizi: una rete per pochi

Tutto ebbe inizio negli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, con un progetto chiamato ARPANET. Nato per scopi militari e accademici, collegava università e laboratori attraverso computer giganteschi, usando messaggi testuali semplici. Era lento, complesso e accessibile solo a ricercatori, ma per la prima volta due macchine potevano “parlarsi” a distanza. 

 

Negli anni Ottanta, l’adozione del protocollo TCP/IP – una sorta di linguaggio universale per i dati – permise a reti diverse di interagire, gettando le basi di Internet. Ma la vera svolta arrivò nel 1991, quando l’informatico britannico Tim Berners-Lee presentò al mondo il World Wide Web: pagine collegate da link, navigabili con un browser. Era nata l’era digitale per le masse. 

 

Le prime email sostituirono lettere e fax, i forum online divennero piazze virtuali dove discutere di tutto, dalle ricette alla politica. La comunicazione diventò più veloce, ma ancora legata a computer fissi e connessioni lente.

La rivoluzione sociale (e mobile) 

Con gli anni Duemila, Internet uscì dagli uffici e entrò nelle case. La banda larga rese possibile caricare foto, video e musica in pochi secondi. Nel 2004, un giovane di nome Mark Zuckerberg lanciò Facebook, trasformando i profili personali in diari pubblici. Piattaforme come MySpace, Twitter e YouTube resero la condivisione un’abitudine quotidiana: ogni pensiero, ogni momento poteva essere trasmesso in tempo reale. 

 

Ma il cambiamento più radicale arrivò con gli smartphone. L’iPhone e Android misero Internet in tasca a tutti. Applicazioni come WhatsApp e Instagram sostituirono gli SMS e le macchine fotografiche: un messaggio poteva raggiungere chiunque, ovunque, in un istante. La comunicazione diventò visiva, immediata, ma anche più effimera: un’emoji sostituiva una frase, un like un complesso discorso.

L’alba delle macchine che parlano 

Mentre i social media ridefinivano i rapporti umani, nell’ombra si preparava un’altra rivoluzione: quella dell’intelligenza artificiale. Negli anni Duemiladieci, algoritmi sempre più sofisticati iniziarono a comprendere – e generare – linguaggio. 

 

I primi passi furono modesti: chatbot con risposte preimpostate per il servizio clienti, assistenti virtuali come Siri e Alexa che rispondevano a comandi vocali semplici. Ma con l’avvento del machine learning, le macchine impararono a tradurre interi testi (Google Translate), a riconoscere volti nelle foto, e persino a scrivere. 

 

Nel 2020, OpenAI presentò GPT-3, un modello linguistico in grado di comporre articoli, poesie o codici informatici partendo da poche parole chiave. Improvvisamente, l’IA non era più solo uno strumento: diventava un interlocutore.

Oggi: tra meraviglia e incertezza 

Oggi, la comunicazione è un ibrido di umano e artificiale. Gli algoritmi di TikTok o YouTube decidono cosa guardiamo, influenzando dibattiti culturali e politici. I deepfake creano video falsi così realistici da confondere persino gli esperti. Strumenti come ChatGPT aiutano medici a redigere diagnosi, studenti a fare ricerche, scrittori a superare il blocco creativo. 

 

Eppure, ogni innovazione porta domande scomode: come distinguere un testo scritto da un uomo da uno generato da un’IA? Come proteggere la privacy quando ogni nostra parola online viene analizzata? E soprattutto: può una macchina comprendere davvero le emozioni umane, o le sta solo imitando?

 Verso un futuro senza confini 

La prossima frontiera è già qui: la realtà virtuale e aumentata promettono spazi condivisi dove interagire con avatar ed organizzare meeting di lavoro in ambienti digitali condivisi. 

L’IA, intanto, avanza: sistemi esistenti continuano a migliorare la capacità di dialogare, riducendo i tempi di risposta a millisecondi. 

 

Ma la vera sfida non è tecnologica. È culturale, etica: come usare questi strumenti per arricchire – non sostituire – il contatto umano? Come evitare che l’efficienza soffochi l’autenticità? La risposta non è nei codici o nei server, ma in chi quei codici li programma, e in chi quei server li usa. Perché alla fine, ogni rivoluzione tecnologica è, prima di tutto, una rivoluzione umana.

Stefano Falzaresi

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